di Daniela Zanuso
Forse molti hanno visto il film del 1977 di Mario Monicelli con Alberto Sordi, ma forse pochi sanno che “Un borghese piccolo, piccolo” è uno straordinario romanzo di Vincenzo Cerami, che , oltre che scrittore e giornalista, è stato candidato all’oscar per la sceneggiatura de “La vita è bella” di Roberto Benigni.
Nei giorni scorsi, la versione teatrale del romanzo, ha visto sul palco del teatro Manzoni di Monza Massimo Dapporto, un attore di gran classe in grado di interpretare magistralmente questo italiano scialbo, mediocre, maschilista e senza interessi se non la pesca domenicale in riva al fiume e le parole crociate nel tempo libero. E con un sogno altrettanto piccolo e ordinario: “sistemare” l’adorato figlio Mario che è diventato ragioniere.
Il borghese piccolo piccolo è Giovanni Vivaldi, un uomo che, ormai prossimo alla pensione, apprende dal capo ufficio, un personaggio corrotto e ripugnante (interpretato dal bravissimo Roberto D’Alessandro), dell’esistenza di un bando per l’assegnazione di duemila posti al ministero. I candidati iscritti, però, sono già dodicimila. Giovanni, consapevole delle difficoltà che potrebbe incontrare il figlio Mario, un ragazzo un po’ imbranato e decisamente goffo, mette in atto tutti i meccanismi possibili e utili a garantire il successo dell’impresa.
Il protagonista è un uomo vecchio dentro e fuori, un uomo stanco, che incarna tutti gli stereotipi dell’italiano medio: il mito del posto fisso, la “raccomandazione” come sistema e scorciatoia per acquisire un privilegio e persino l’adesione alla massoneria per garantire il successo di tutto. E ultima, ma non meno importante, la scelta di farsi giustizia da solo.
Sì perchè, in tutta questa tensione per cercare di assicurare un futuro al figlio, il destino si mette di traverso e la commedia che nel primo tempo ha tratti comici e grotteschi, riesce a far ridere e sorridere, si volge in tragedia. Mario, proprio il giorno dell’esame e in presenza del padre, rimarrà vittima di una sparatoria durante una rapina.
Amalia, mamma di Mario e moglie di Giovanni, nell’apprendere la notizia alla televisione, sarà colta da ictus. Una tragedia nella tragedia, che riuscirà a trasformare il protagonista in un uomo cinico e mostruoso.
Convocato presso il posto di polizia locale, Giovanni fingerà di non riconoscere l’assassino e sceglierà di catturarlo da solo, portarlo nel capanno lungo il fiume e torturalo fino a farlo morire. Salvo poi rendersi conto, alla fine di tutto e dopo la morte della moglie, che gli rimangono solo giorni vuoti e senza senso da vivere da solo.
Significative alcune scene particolarmente indovinate, come quella in cui Mario, che si sta preparando per l’esame, recita l’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…” ) e il padre lo aiuta a completare il testo citandolo a memoria, in un contrasto stridente con il suo atteggiamento volto a raggirare quelle leggi con ogni possibile inganno.
Sul palco sono ben rappresentati i tre luoghi in cui si svolge la storia: il posto di lavoro, la modesta casa e la misera baracca lungo il fiume. Efficace il modo in cui con il solo movimento dei fasci di luce sul palco, la scena si sposta da un luogo all’altro. Oltre all’intensa interpretazione di Dapporto, anche il cast di attori e le musiche di Nicola Piovani contribuiscono alla perfetta messa in scena di un’Italia sicuramente ancora molto attuale.
Perchè c’è tanta Italia in questa storia straordinaria e brutale, una storia che obbliga a riflettere su quali siano i confini fino ai quali siamo disposti a spingerci pur di vedere realizzati i nostri sogni piccoli, piccoli.