di Claudia Terragni
Ogni volta che mangio un mandarino con mia nonna, lei ricorda che quando era piccola, ne poteva avere solo uno spicchio a Natale. In tempo di guerra si faceva la fame e la sua famiglia poteva permettersi soltanto un mandarino all’anno, diviso tra dieci fratelli. Ma anche dopo il 1945, gli stomaci degli abitanti dell’Europa non potevano certo dirsi soddisfatti.
L’Europa aveva fame. Si assumevano meno di 1500 calorie al giorno. Il pane quotidiano erano l’orrore, la violenza e la povertà. Non basta riporre le armi per dichiarare concluso un conflitto.
Nella primavera del 1946 Churchill lanciò un appello agli Stati Uniti per la difesa della democrazia in Europa, resa tanto più urgente dalla situazione in cui versava una Gran Bretagna talmente stremata da non avere più incidenza sulle sorti della politica mondiale.
La risposta degli Stati Uniti non si fa attendere: l’America sa che la disperazione porta a disordini, ribellioni e rivoluzioni. Sicuramente meglio evitare.
Così, il 5 giugno 1947, il segretario di stato statunitense George C. Marshall presenta ad Harvard l’European recovery programm (Erp), il programma per la ricostruzione europea passato alla storia come Piano Marshall.
Il politico e generale statunitense fu capo di stato maggiore generale fino al ‘45, quando venne nominato segretario di stato e successivamente ministro della Difesa. Oggi ricorre l’anniversario della sua morte, avvenuta il 16 Ottobre 1959, pochi anni dopo il conferimento del premio Nobel per la pace.
Il piano Marshall prevedeva la concessione di fondi a titolo gratuito o a tassi d’interesse bassissimi per finanziare l’acquisto di macchinari, attrezzature e materie prime dagli Usa o da altri paesi. Venne elaborato un programma quadriennale di sovvenzioni e stanziamenti a favore di 15 paesi Europei, parallelamente a una politica di austerità economica ancora necessaria. Marshall sapeva che il problema fondamentale del continente transatlantico era la mancanza di capitali.
“La nostra politica non è contraria a un paese o a una dottrina, ma è contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos” proclama Marshall ad Harvard. Inevitabile che tale atto non fosse puramente mosso da ragioni filantropiche. Oltre alle chiare conseguenze economiche determinate dal ristabilire rapporti commerciali duraturi, per gli Stati Uniti la ricostruzione di un’Europa stabile aveva anche un forte significato politico. Intervenire con un piano organico di aiuti, oltre alla rifondazione di un ampio mercato di esportazione, voleva dire alimentare il “containment”.
Secondo la “strategia del contenimento” contro l’Unione Sovietica, non occorreva tanto fronteggiare un attacco diretto dell’Urss, quanto reprimerne ogni tentativo di espansione. Dunque porre fine al malcontento europeo attraverso le modalità tipiche del liberalismo. Il presidente Truman sosteneva che “per fermare il comunismo occorre liberare l’Europa dalla miseria e dal bisogno” e sicuramente meglio “pane e voti che pallottole”.
La battaglia propagandistica non si fa attendere: secondo gli occidentali, il sostegno americano si traduceva in un trionfo della solidarietà liberale e democratica. D’altro lato per Mosca l’intervento USA era da leggere come un attentato alle indipendenza europee, uno strumento d’imperialismo. Anche in vari paesi europei non mancarono vari segni di protesta sindacale, contro la “colonizzazione americana”. Nemmeno negli Stati Uniti mancarono movimenti di disappunto: l’iniziativa del governo fu oggetto di forti critiche da parte degli isolazionisti.
Comunque ci si schieri, grazie al piano Marshall tra il 1948 e il 1952 furono stanziati 13 miliardi di dollari a favore di governi europei (1.5 miliardi in Italia). La rinascita economica assunse una velocità incredibile: nel giro di soli due anni si raggiunse il miglioramento che si pensava sarebbe stato possibile in 15.
“Dobbiamo presentare la democrazia come una forza che contiene in sé stessa i semi del progresso della razza umana” ricorda Marshall durante la cerimonia di assegnazione del Nobel. Forse è proprio da questi semi che sono spuntanti i mandarini che oggi mia nonna può gustarsi non solo il giorno di Natale.