Un Natale senza il tacchino

di Alfredo Somoza

L’allarme lanciato degli allevatori britannici di tacchini è l’ennesima conferma di come ormai a essere interdipendente non sia solo il mondo nella sua globalità, ma anche i singoli Stati al loro interno.

Per mancanza di personale gli allevatori britannici non riusciranno a garantire il piatto re della tavola natalizia isolana: il tacchino, portato dall’America in Europa proprio dai coloni inglesi. Non solo: molte altre merci per la prima volta nella storia postbellica scarseggeranno e gli scaffali natalizi rimarranno semivuoti.

Senza contare la crisi dell’autotrasporto dovuta alla mancanza di camionisti, quella della sanità e dell’assistenza alla persona e di molti altri mestieri e professioni. La Gran Bretagna imperiale, che si immaginava autarchica anche in materia di manodopera, sta per alzare bandiera bianca e già il governo, alla disperata, ha dovuto annunciare la concessione di alcune migliaia di permessi di lavoro a cittadini stranieri.

È incredibile che un Paese quasi integralmente terziarizzato, che importa ben più della metà di quanto consuma, che esporta servizi finanziari, bancari e assicurativi e che per funzionare si serviva della manodopera delle ex colonie e dell’Europa comunitaria, abbia creduto di potersi sganciare senza contraccolpi dal suo grande mercato naturale, l’Unione Europea. Eppure Londra l’ha fatto davvero, cambiando le regole su merci e servizi e lasciando scoperti da un giorno all’altro centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Una sola volta era successo qualcosa di simile, ma era fiction hollywoodiana, nel film Un giorno senza messicani del 2004. Il film racconta la misteriosa scomparsa dei messicani dalla California, immersa in una strana nebbia. È il caos, lo Stato si paralizza.

La differenza è che nel caso della Brexit non si tratta di distopia, ma del risultato di una catena incredibile di errori di calcolo e di opportunità. Dal conservatore David Cameron che usò l’arma del referendum per ricattare l’Europa nel tentativo di ottenere maggiori vantaggi per il Regno Unito e restò scottato dal risultato pro-Brexit del 2016, passando per i goffi tentativi di Theresa May di negoziare un’uscita dignitosa, fino alla spregiudicatezza di Boris Johnson, il quale affermava che bisognava uscire dall’Unione al più presto, senza pensare alle conseguenze. Anzi, sostenendo che sarebbero state sicuramente positive.

L’errore di tutti questi politici è stato ragionare con parametri superati. Una volta un’economia forte, un esercito di rispetto e il prestigio internazionale erano sufficienti per poter stare da soli, e anche bene. Le materie prime che non si producevano si predavano, o quasi, dai Paesi coloniali e postcoloniali; e il personale di fatica lo si reclutava nei ceti bassi della società o con operazioni mirate di importazione di manodopera.

Oggi tutto questo è stato superato dalla globalizzazione. Non solo i Paesi sono integrati in un sistema-mondo, ma anche le loro società riflettono in piccolo ciò che è il mondo odierno, una rete interdipendente. Una popolazione molto istruita e qualificata ha necessità, come complemento, di immigrati di diverse provenienze che occupino i posti di lavoro lasciati liberi, sognando di salire sull’ascensore sociale. Camerieri, idraulici, camionisti, infermieri, braccianti agricoli: lavoratori senza i quali si ferma tutto, come appunto sta succedendo nel Regno Unito. Lo stesso vale per le relazioni commerciali.

Uscire da un mercato protetto, nel quale le tue merci viaggiavano senza problemi e dove potevi comprare come se fossi a casa tua, non è una questione che si risolve in pochi mesi. L’arroganza con la quale la politica del Regno Unito ha sognato di far tornare il proprio Paese la potenza di un tempo si è scontrata contro il muro della realtà.

E tanti saranno i feriti.

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