Una speranza ostinata

“Vengo come testimone, per spiegare, non come un giudice o un pubblico ministero”, diceva spesso Max Mannheimer nel corso delle sue tante conferenze sulla sua esperienza nei campi di concentramento. Perché Mannheimer, ebreo nato nel 1920 a Neutitschein, nella repubblica Ceca, era sopravvissuto all’Olocausto, insieme ad uno solo dei suoi fratelli. Dopo la liberazione, nell’aprile del 1945, della colonna di prigionieri di cui faceva parte, Max tornò nella sua città natale ma non vi restò a lungo, infatti, sposò una donna tedesca e andò a vivere proprio lì dove aveva giurato di non tornare mai più, in Germania.

Per tanto tempo non aveva voluto o non era riuscito a parlare della sua esperienza di prigioniero, ma, a metà degli anni Sessanta, credendosi gravemente ammalato, decise di scrivere un memoriale destinato alla figlia, Eva, nel quale riferiva in maniera lucida e asciutta ciò che gli era accaduto in quegli anni terribili.

Nasce così questo testo, che viene pubblicato e seguito da una serie di conferenze in cui Mannheimer raccontava alle nuove generazioni gli orrori di quegli anni; tuttavia il volume trova una strada per raggiungere il pubblico italiano solo nel 2011, quando Claudio Cumani, fisico triestino che lavora in Baviera, incontra Max, realizza la traduzione dello scritto e si impegna nella ricerca di un editore italiano, con l’aiuto di Paolo Rumiz che ne cura l’introduzione.

La narrazione si presenta sotto forma di diario, comincia dagli anni dell’infanzia, relativamente serena, seppure segnata dalla consapevolezza di una diversità di carattere religioso, per poi passare rapidamente a raccontare i primi segnali di intolleranza, l’arrivo successivo dei tedeschi e la conseguente perdita di ogni diritto, la fuga in un’altra città, in una zona ancora libera della Repubblica Cecoslovacca, per godere di una tranquillità che dura solo poco tempo. Anche qui, infatti, arrivano i tedeschi con il loro carico di persecuzioni, e tutto si ripete nelle stesse identiche modalità vissute a Neutitschein.

Malgrado tutto, si cerca di continuare a vivere, e Max sposa una ragazza ebrea, Eva, poco prima di essere deportato, nel gennaio 1943, nel lager, insieme a lei e alla sua famiglia. Non rivedrà mai più né Eva né i propri genitori.

La testimonianza degli anni passati da Max nei vari campi di concentramento è dolorosa eppure necessaria, non soltanto per non permettere al mondo di dimenticare e per offrire una testimonianza delle sofferenze patite dagli internati, ma perché restituisce dignità a tutti quegli uomini e quelle donne a cui essa era stata tolta senza alcun motivo.

Attraverso le sue parole, Max riesce a far percepire al lettore quella forza che, paradossalmente, nasce, in alcune circostanze, proprio dalla consapevolezza della propria impotenza, e gli permette di sopravvivere con ostinazione in condizioni disumane.

Il resoconto termina nel momento in cui le truppe americane liberano la colonna di deportati e si prendono cura di loro in un ospedale da campo.

“Siamo nuovamente esseri umani. Possiamo andare in un ospedale senza avere paura. Siamo liberi.”

Per Max, non c’è null’altro da aggiungere.

 

Valeria Savio

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