di Alfredo Somoza
Quanta fatica si fa quando si vuole analizzare un fatto di guerra come se fosse un problema di devianza sociale o di integralismo religioso estremizzato. Gli esperti che hanno visto per primi le riprese della strage di Parigi non hanno avuto dubbi sulla condizione di “reduci di guerra” dei due killer in azione: spigliatezza, freddezza, ma soprattutto l’utilizzo di armi automatiche, come i kalashnikov, a “colpo singolo”. Una scelta che può fare soltanto un professionista che è sicuro di centrare il bersaglio senza dovere sprecare pallottole mitragliando. Reduci quindi di uno dei conflitti mediorientali che dispongono appunto di kalashnikov e lanciarazzi nel cuore di Parigi. Nulla di più lontano dalla narrazione delle destre che presentano tali combattenti come invasati che agiscono per conto di Allah. Ma anche a sinistra c’è confusione. Si rifiuta il concetto di “guerra” perché questa viene associata automaticamente al concetto di “scontro di civiltà” che da Huntington alla Fallaci ci accompagna da un paio di decenni. Ma quando dal pazzo furioso che prende un martello e colpisce a casaccio si passa al commando di reduci armati e organizzati, stiamo parlando di un’altra guerra, non più virtuale ma reale.
La guerra infinita per la spartizione dei territori mediorientali diventati stati dopo il colonialismo e oggi in parte regrediti allo status precedente. Scontri tra diverse fazioni, etnie, interessi economici e nazionali. Un grande caos nel quale l’Occidente è dentro fino al collo con i suoi alleati e i suoi nemici, con la sua intelligence e i suoi droni, con i suoi soldati, multinazionali e consulenti. Come in tutte le guerre, il contendente più debole sfrutta tutto quanto sia a sua disposizione per mandare messaggi, per veicolare la sua propaganda, per fare reclutamento. La strage di Parigi è tutte queste cose insieme: un avvertimento alla Francia, protagonista nelle scorribande mediorientali, sulla sua debolezza in casa; un botto di propaganda e uno spot per il reclutamento di nuove leve di combattenti da portare sul fronte. La battaglia dei gruppi jihadisti ha come obiettivo la conquista di visibilità politica e di spazi geografici in Asia o Nord Africa. Da Al-Qaida all’ISIS, la posta in gioco sono l’Irak, l’Arabia Saudita, la Libia. Non di sicuro le metropoli occidentali. Le Torri Gemelle o l’attentato di Atocha a Madrid non preannunciavano l’invasione delle truppe del Califfo, ma lanciavano un mostruoso avvertimento che ad esempio la Spagna colse al volo tirandosi fuori dall’Iraq.
Dovremo purtroppo dare meno credito ai sociologi e agli esperti di Islam, e più agli analisti militari. Stiamo assistendo a un conflitto sempre più globale per il controllo di una zona strategica del pianeta e anche noi siamo dentro. Papa Francesco recentemente parlava di una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” e forse non si sbaglia. Un conflitto sporco che contamina tutti i contendenti e che non risparmia mezzi o sofferenze. Ieri a Parigi e a Kobane, per qualche minuto, è andato in scena lo stesso orrore.
Alfredo Somoza