Uomo e galantuomo

DeFilippo

di Isabella Procaccini

Vincitore del Premio come miglior spettacolo del Festival di Borgio Verezzi 2013, in scena a Monza al Teatro Manzoni

Tre atti, 1922. Eduardo De Filippo scrisse Uomo e Galantuomo a soli 22 anni, un testo giovanile che, però, contiene già tutto il suo modo di intendere il Teatro. Colore, umorismo e farsa. Uomo e Galantuomo è una pièce divertente, ricca di equivoci, fraintendimenti e goffaggine.

Ma non bisogna dimenticare che per Eduardo l’umorismo è anche altro, è la parte amara della risata, quel presentare con un velo di comicità ciò che in realtà è estremamente triste e desolante. Questo intento di Eduardo diventa anche il nodo centrale dell’allestimento di Alessandro D’Alatri, in scena al Teatro Manzoni di Monza che, nelle note di regia dichiara:

“…seppure caratterizzata da una ricca serie di battute ed episodi irresistibilmente comici, nella commedia emergono una gran quantità di contraddizioni tra l’apparire e l’essere della borghesia contro il dramma proletario di chi ogni giorno affronta la sopravvivenza. Falso perbenismo contro tragedia. Onore da salvare contro fame. E in tutto questo dov’è l’uomo e dove il galantuomo?”Teatro Manzoni

In scena vediamo, infatti, due categorie sociali ben distinte: la prima è la borghesia, capeggiata dal conte Carlo Tolentano, Giancarlo Cosentino, e da sua moglie Bice, Ida Brandi. I due sono portatori dei falsi ideali che ruotano attorno al loro mondo fatto di presunto onore e di salvaguardia delle apparenze. Sotto il velo dell’ipocrisia si nascondono menzogne e tradimenti. La loro bella dimora e i loro abiti lussuosi si tingono di bianco nell’allestimento di D’Alatri. Un colore che stride terribilmente con il nero delle loro anime.

La seconda è una compagnia di guitti, ispirata ai Comici dell’Arte, diretta da Don Gennaro, Gianfelice Imparato, chiamata dall’albergatore Alberto De Stefano, Valerio Santoro, a intrattenere gli ospiti con delle recite serali. È così che lo spettatore entra nella magia del Teatro nel Teatro. I comici, nell’interpretare i propri ruoli, mescolano la vita con l’arte. Tra farsa, giochi di parole, smorfie e comicità emerge la loro vera condizione, quella di poveracci perché si sa, come dice Don Gennaro, “il teatro non dà un gettito continuo di contratti”. La loro è una continua lotta contro la fame e la precarietà ma il loro è un mondo dignitoso, fatto di umiltà e trasparenza. Quanta verità nell’essere attori!

Allora chi è l’uomo e chi il galantuomo? D’Alatri, però, porta ad un ulteriore livello la riflessione sul rapporto tra Teatro e Vita, aggiungendo un terzo termine di paragone, quello col Sogno. Infatti, il regista aggiunge un intermezzo, tra secondo e terzo atto, che nel testo di Eduardo non c’è. Don Gennaro, rompendo la quarta parete, rimane personaggio ma, contemporaneamente, si fa portavoce della parola dell’attore. Annuncia che lo spettacolo per la serata è annullato. Non ci sono mezzi. Aggiunge: “Sarebbe così bello se l’attore potesse avere nel Teatro la propria casa!”

Parole vere, parole attuali. Una casa vuol dire stabilità e stabilità vuol dire qualità. E la qualità dell’attore permette al pubblico di vivere il proprio sogno a Teatro. L’allestimento di D’Alatri porta in scena una qualità attoriale eccezionale: l’immedesimazione è garantita da una straordinaria capacità degli interpreti di farci ridere e, allo stesso tempo, di farci riflettere. C’è tutto: Teatro, Vita e Sogno.

Isabella Procaccini

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