Venti di pensieri: fermarsi a guardare quel che c’è

di Eleonora Ticca

Ho 27 anni. E la considero un’età liquida in cui senti che ti manca ancora qualcosa per sederti al tavolo degli adulti ‘arrivati’ (meno precarietà lavorativa? Una relazione affettiva stabile? La possibilità di chiedere un mutuo, senza contestualmente googlare come vendere un rene?), ma hai già un discreto bagaglio di emozioni, esperienze e consapevolezze con te.

Per noi, la quarantena è arrivata in un momento di vita in cui, si suppone, dovremmo spiccare il volo e muoverci nel mondo per esplorare, conoscere, conquistare e scegliere cosa lasciare indietro. Ci siamo trovati fermi in un momento in cui avevamo appena inserito la terza marcia. Potrebbe sembrare, a prima vista, uno stop molto spaventoso (e, sicuramente, a tratti lo è) e un po’ ingiusto.

Personalmente, penso che ci siano essenzialmente due movimenti (paradossale, no?) che questo periodo di ‘lockdown’ ci può insegnare: il primo è quello di mettere seriamente in discussione il mito dell’arrivare, l’imperativo di dover riuscire, di essere più ambizioso degli altri.

E questa cosa la penso perché, in questo momento in cui ho visto modificarsi tutto, ho davvero capito che ‘quello che c’era prima’ in realtà mi piaceva moltissimo. Mi piace il mio lavoro, anche se sottopagato, mi piace la mia casa, anche se non è esattamente mia, mi piacciono le mie relazioni, anche se non sono stabili. Non so con esattezza dove volessi arrivare ‘prima’, che tipo di corsa forsennata pensassi di dover compiere. Ma ero già ‘arrivata’, quanto meno al punto giusto per me, in quel momento. E questa cosa prima non la sapevo.

Pensavo di essere in transito verso, e invece avevo già raggiunto un’isola amena. (Mettiamo in chiaro che spero che non sia l’unica ‘isola’ che raggiungerò e che non è, decisamente, priva di difetti). Ma che bella conquista sentirsi meno affannati e godersi quel che c’è, per poi poter cambiare, ma solo quando lo senti tu e non per un diktat esterno.

Quindi, potremmo riassumere il primo movimento come ‘fermarsi a guardare quel che c’è che magari ti piace’.

E il secondo invece lo chiamerei ‘muoversi senza muoversi’ o ‘muoversi dentro‘: non potendo uscire di casa, la persona con cui mi faccio più compagnia sono io, ancora io e sempre io. Ho, necessariamente, dovuto costruire un dialogo con questo io per non trovarmi costretta a parlare con i mobili (che non rispondono). Invece ho scoperto che l’Io risponde (e raramente tace, quando non ne puoi proprio più).  Mi sono chiesta (e risposta) molte cose che non avevo mai avuto tempo di chiedermi (sarà vero poi che ci mancava il tempo?). E così ho scoperto moltissimo: cosa penso veramente, quello di cui ho bisogno, cosa mi fa stare bene e cosa no.

Direi non poco, per me almeno.

 

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