di Luigi Picheca
Il nostro modo di vivere è stato profondamente modificato in questo periodo e, a volte, si coglie nelle persone un moto di insofferenza e di ribellione verso le misure restrittive adottate dal governo.
Non so dire se i provvedimenti messi in atto siano troppo rigidi ma, sembra, che si stiano rivelando efficaci nel contrastare questa epidemia che ci ha riportati indietro nel tempo di qualche secolo. Siamo tornati al periodo delle peggiori pestilenze, quelle che avevamo letto solo sui libri di storia e di letteratura.
Non è difficile cogliere certi atteggiamenti: noi siamo abituati ad avere un certo tipo di rapporti sociali e affettivi e doverci rinunciare di colpo sembra inconcepibile.
Ci si trova così a dover lottare tra la necessità di rispettare le indicazione del governo, e quindi obbedire alla nostra parte razionale, e il desiderio di continuare a scambiarsi quei gesti affettuosi che fanno parte della nostra cultura e delle nostre consuetudini.
Oggi siamo costretti a indossare le mascherine ed altre protezioni che nascondono le nostre espressioni facciali, quelle espressioni che trasmettono e comunicano in modo istintivo, essenziale e immediato il nostro stato d’animo , i nostri pensieri e sentimenti.
Questo è ancora più evidente in ambito ospedaliero, dove gli operatori sono completamente intabarrati e mascherati. Viene così a mancare quello speciale scambio emotivo di cui sentono il bisogno soprattutto i pazienti che rappresentano l’anello debole della catena e che, in questo momento in cui manca il conforto dei familiari e degli amici, hanno ancora più bisogno del semplice ma prezioso sostegno di un sorriso.
Un sorriso magari dipinto sulle mascherine, ma un sorriso, perchè è importante e ci fa sentire bene.