di Roberto Dominici
Se fai volontariato vivi più a lungo. Sono questi i risultati di una ricerca scientifica svolta negli Stati Uniti.
Tutti conosciamo la nostra età anagrafica, quel numero che segna il passare degli anni e che festeggiamo il giorno del compleanno. Ma spesso non siamo consapevoli dell’esistenza di un altro indicatore più importante, quello che indica la nostra età biologica, ovvero la stima di quanto il nostro corpo è “invecchiato” a livello cellulare e molecolare.
Mentre l’età anagrafica guarda al calendario, l’età biologica guarda alle condizioni delle nostre cellule e dei nostri tessuti. I due numeri possono coincidere in gioventù, ma con il passare del tempo l’età biologica può distaccarsi notevolmente da quella anagrafica.
Lo stile di vita e altri fattori possono infatti accelerare o rallentare i processi di invecchiamento a livello cellulare. Questo spiega perché due persone della stessa età anagrafica possono mostrare un’età biologica molto diversa, con il risultato che una persona di 60 anni potrebbe avere un’età biologica di 50, mentre un’altra della stessa età anagrafica potrebbe avere un’età biologica di 70.
Insomma, noi possiamo avere più anni di quanto indichi la nostra carta d’identità o avere un’età biologica che ci avvantaggia. Avere una ottima o buona età biologica rispetto a quella che è l’età anagrafica non è semplicemente un fattore di tipo estetico, ma è un fattore di tipo funzionale, cioè è un’espressione della qualità e della funzionalità dei nostri organi e dei nostri apparati.
Diversi studi, negli anni, hanno dimostrato come attività di ogni tipo, dallo sport a quelle sociali, siano fondamentali per la longevità e per abbassare la propria età biologica. Un recente studio condotto da diversi ricercatori statunitensi e pubblicato su Social Science & Medicine qualche settimana fa, ha scoperto che tra le attività che aiutano ad abbassare la propria età biologica c’è il volontariato, anche solo per un’ora a settimana.
Si è visto che è associato a un invecchiamento più lento delle cellule e dei tessuti del corpo rispetto alla propria età anagrafica. I ricercatori hanno analizzato i dati di 2605 cittadini americani di età superiore ai 62 anni, determinando la loro età biologica e confrontandola con la frequenza con cui facevano volontariato, insieme ad altri fattori come lo stato di salute generale e se lavoravano ancora o erano andati in pensione.
I risultati hanno mostrato che chi faceva volontariato per un’ora o più alla settimana era sottoposto a un invecchiamento cellulare e biologico più lento rispetto a chi non lo faceva: in sintesi, manteneva il suo corpo più giovane aumentando la longevità.
I ricercatori spiegano che il volontariato offre una combinazione di benefici fisici, sociali e psicologici: spinge le persone a muoversi e a camminare, e quindi ha una componente di attività fisica, inoltre aiuta a costruire una rete sociale che spesso non è presente nelle persone anziane, riducendo lo stress e migliorando la salute cognitiva.
In particolare, sono i pensionati a trarre i maggiori benefici, soprattutto quelli che arrivavano a 4 ore di volontariato a settimana. Non è la prima volta che la scienza rileva un’associazione sana tra volontariato e longevità: uno studio del 2023 aveva già spiegato che il volontariato potrebbe ridurre la mortalità tra gli anziani.
Ci sono diversi test per determinare l’età biologica: i biomarcatori come la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, gli aspetti fisici come le rughe e l’imbiancamento dei capelli, i test epigenetici che esaminano come i comportamenti e l’ambiente influenzino il DNA.
Ad esempio, un quarantenne che ha un’età biologica di 60 anni può indicare uno stato di cattiva salute. Al contrario, un’età biologica inferiore a quella anagrafica può essere un segnale di uno stato di salute migliore e di una vita potenzialmente più lunga.
La scienza medica ha fatto grandi passi avanti nella capacità di stimare l’età biologica di una persona. Uno dei metodi più promettenti si basa sull’analisi dell’epigenoma, cioè di quei segnali chimici che regolano lo schema di attività dei geni.
Con l’avanzare dell’età, infatti, si accumulano degli specifici “segni” epigenetici sul DNA. Esaminando il pattern di queste modifiche in un campione di cellule, è possibile stimare con buona precisione l’età biologica di un individuo. Noi siamo il frutto di due componenti, una componente genetica e una componente cosiddetta epigenetica.
Per chi volesse approfondire i concetti chiave dell’epigenetica può leggere anche un mio articolo precedente pubblicato sul Dialogo di Monza nel gennaio del 2020 (Genetica e epigenetica nelle malattie neuropsichiatriche). Sottolineo qui solo che la prima componente è quanto di buono o di difetti abbiamo ereditato dai nostri genitori.
Una volta che noi conosciamo il nostro assetto genetico, siamo in grado di conoscere ciò che ci avvantaggia o ciò che ci svantaggia e meglio stabilire una terapia, un programma, un “action plan” finalizzato a contenere i difetti in chiave proprio di medicina preventiva. Uno degli algoritmi più efficaci per stimare l’età biologica tramite l’epigenetica è l’orologio epigenetico messo a punto dal professor Steve Horvath della University of California di Los Angeles.
Questo metodo, analizzando il pattern di metilazione del DNA in diversi punti del genoma cioè un particolare tipo di modifica chimica del DNA, fornisce una stima molto accurata dell’età biologica, con un errore inferiore ai due anni. Ovviamente, si tratta solo di una stima statistica, non è possibile conoscere con assoluta certezza l’età precisa delle cellule. Inoltre, l’età biologica varia da tessuto a tessuto.
Tuttavia, analizzando un campione di cellule con queste tecniche si può ottenere un buon indice dell’età biologica media di un individuo. Esistono anche metodi più semplici, come osservare con obiettività l’aspetto di una persona o misurare la forza della presa della sua mano. Questi possono fornire una stima approssimativa, ma abbastanza accurata, dell’età biologica di un individuo.