di Alessandro Arndt Mucchi
Per un regime dittatoriale è fondamentale costruire una rete di simboli che crei identità, faccia da collante nella società e in un certo senso nobiliti la causa. L’esempio di quanto fatto dai nazisti è probabilmente il più noto tra quelli occidentali, con l’eliminazione dell’arte degenerata e il furto, chiamiamolo col suo nome, di Nietzsche e Wagner tra gli altri.
Wagner non scriveva musica per la razza ariana, ma nemmeno amava gli ebrei. Non si può far finta di niente davanti al suo “Das Judenthum in der Musik” (tradotto in italiano come “Gli ebrei e la musica”) che viene portato a principale prova accusatoria nei suoi confronti: per forza antisemita deve essere chi si scaglia contro l’aspetto fisico e il tono della voce degli ebrei, e in effetti così su due piedi si fatica a trovare scuse.
Sembrerebbe semplice, ma chiaramente non lo è come per forza succede quando trattiamo l’intreccio tra arte e storia, e infatti a scavare si scopre che forse c’era qualcosa di più soggettivo a muovere il fastidio di Wagner. Ben lontano dall’essere un teorico della superiorità delle popolazioni germaniche, Wagner era più che altro un musicista dal talento impetuoso e dal portafoglio vuoto.
Se da un lato infatti il compositore non faceva mistero delle sue idee, dall’altro manteneva buoni rapporti con diversi ebrei sia sul piano lavorativo che su quello delle amicizie. Il caso più rilevante è probabilmente quello di Hermann Levi, figlio di un rabbino nientemento, che godeva di grande stima da parte di Wagner tanto da essere il direttore designato per la conduzione della sua ultima opera, il Parsifal.
Da dove viene tanto odio allora? Non si può nascondere che una certa percentuale di semplice antisemitismo ci fosse, ma ugualmente vanno prese in considerazione le condizioni lavorative di Wagner. Infastidito dal successo di Felix Mendelssohn e Giacomo Meyerbeer (entrambi ebrei), si ritrovava in difficoltà nel trovare di che lavorare e in continua fuga dai creditori, una scomoda posizione che è chiaramente terreno fertile per i pensieri più molesti.
Con la penna dava la colpa a Meyerbeer di essere messo da parte sul piano lavorativo, ma col portafoglio accettava i suoi prestiti e sfruttava le sue conoscenze per organizzare la prima rappresentazione del suo primo successo di pubblico, l’opera Rienzi. Un antisemita poco convinto, forse più per fastidio che per altro insomma.
Come accade con gli artisti che i regimi decidono di prendersi per loro, anche nel caso di Wagner i nazisti hanno accuratamente selezionato solo le parti che gli facevano comodo per sostenere la propria causa. Nemmeno gli piaceva troppo, pare, visto che poi di fatto erano le rappresentazioni di opere italiane a vincere l’apprezzamento dei funzionari di partito.
Era Hitler a stravedere per Wagner, una passione personale che non era però apprezzata dagli altri uomini del regime (su tutti Goebbels la sopportava meno) e che si rifletteva sulle adunate oceaniche aperte dall’overture dello Rienzi per esempio.
Altro episodio noto del 1933 è l’acquisto da parte del Fuhrer di mille biglietti per una rappresentazione di musica di Wagner a Bayreuth destinata ai funzionari di partito, che però bigiarono in massa tanto da spingere Hitler a rendere la partecipazione obbligatoria dall’anno successivo. Neanche il timore di rappresaglie però riusciva a tenere svegli i nazisti pare.
Per fortuna dopo la caduta del regime è stata fatta un’attenta opera di ricostruzione storica che ha portato alla riabilitazione dell’immagine di Wagner, ora quasi del tutto libero dalla scomoda associazione col nazismo. C’è ancora chi, però, guarda torvo al compositore: in Israele è di fatto bandito, e le poche rappresentazioni che si sono tenute dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi hanno causato moti di fastidio nella popolazione.